Cerchiamo di analizzare il contesto economico che condurrà l’Italia alla patrimoniale in modo da fornire al lettore la consapevolezza che prima si dà una mossa per sfuggirle e meglio è.
Cominciamo con il dire che il vero problema dell’Italia non sono gli immigrati, la “cattifa” Germania, gli stipendi dei politici o l’invasione delle cavallette rosse. Il vero e centrale problema, di cui si dovrebbe parlare tutti i giorni, è la produttività del lavoro. Questa è la causa di tutti i mali recent: la scarsa produttività del lavoro.
Che c’entra la bassa produttività del lavoro con la patrimoniale?
Sono circa 20 anni che, quando il ciclo economico è favorevole, l’Italia cresce meno degli altri. Allo stesso tempo, quando il ciclo economico è invece sfavorevole, l’Italia decresce più degli altri.
Questo è dovuto ad una scarsa produttività del lavoro.
Ma cos’è la produttività del lavoro e cosa c’entra con la patrimoniale?
La produttività occupa un posto d’onore nella teoria economica: da essa dipende la capacità di un paese di crescere e di competere profittevolmente con gli altri paesi, di controllare l’inflazione e di aumentare il proprio tenore di vita. Una produttività stagnante è quindi in generale un pessimo indicatore.
L’Italia ha cominciato a perdere posizioni nel ranking mondiale della produttività già dal 1980, a seguito delle svalutazioni cosiddette “competitive” degli anni ‘70 che, anziché costringere gli imprenditori a innovare i processi produttivi per adeguarsi ai mercati internazionali, li favoriva appunto con svalutazioni della moneta che andavano ad intaccare gli stipendi dei loro dipendenti diminuendone il relativo valore.
Per 10 anni le imprese italiane hanno seguitato a NON innovare con risultati negativi già a partire dagli anni ‘80. Da allora in poi è stato tutto un declino costante. I conti pubblici si sono aggravati a causa della riduzione di gettito dovuto al minore introito di tasse e dall’invecchiamenti della popolazione.
La causa principale di tale declino è, alla luce dei dati oggi disponibili, da attribuire senza dubbio alla stagnazione della produttività.
Infatti l’Italia vanta la “maglia nera” tra i Paesi industrializzati per i livelli di produttività non solo dalla crisi a oggi, ma almeno dal 2001 (e anche prima). A pesare negli anni più recenti è inoltre il fatto che la maggior parte dei posti di lavoro di nuova introduzione riguarda settori con una produttività relativamente bassa, proprio come è avvenuto, del resto, in altri paesi, tra cui Usa, Gran Bretagna e Spagna.
Il rallentamento della produttività – rileva l’Ocse – ha riguardato soprattutto il settore manifatturiero tanto che, ad oggi, il divario tra grandi gruppi e piccole imprese resta molto ampio. La forte incidenza di lavori a bassa produttività ha pesato sui salari medi e sebbene si è assistito ad una ripresa della produttività negli anni più recenti, in molti settori i salari continuano ad avere una dinamica inferiore a quella della produttività.
Elemento da ricordare: Bassa produttività = bassi salari
La pessima produttività del lavoro significa costi unitari più elevati dei concorrenti esteri e quindi un sistematico svantaggio nella competizione internazionale; ed ha voluto anche dire una minore crescita del reddito pro-capite per i cittadini italiani.
La performance di un’economia non dipende infatti solo dall’elettronica, dai master all’estero dei suoi manager e dalla scolarità media dei suoi dipendenti; dipende anche in modo determinante dall’ambiente competitivo (che spinge o ostacola l’innovazione); dalla flessibilità dei mercati di riferimento; dalle infrastrutture (ad es. i trasporti); dall’efficienza dei servizi pubblici e dalla semplicità degli adempimenti amministrativi; dall’esosità del sistema fiscale ed anche dalla la certezza dei diritto (che riduce le inadempienze contrattuali ed i rischi di illegalità). Che in Italia ci sia molto da fare su questi terreni non c’è più alcun dubbio.
Secondo la Banca Mondiale, su 183 paesi l’Italia è 80ma dietro a tutti paesi dell’Unione Europea per “facilità di fare impresa” (davanti solo alla Grecia) e dietro a Vietnam, Mongolia e Bielorussia; 157ma nella capacità di rispettare i contratti (dietro a Kossovo e subito prima del Congo) e così via.
Te lo ripeto: a causa della mancata crescita della produttività i salari italiani sono fermi da 20 anni!!!
Comincia a essere chiaro perché una patrimoniale diventa inevitabile?
Qual è il problema che causa la bassa produttività? Le micro imprese
Il grafico seguente mostra la produttività del lavoro nei grandi paesi europei. Questo grafico misura il valore aggiunto per persona occupata. Vediamo che per persona occupata nelle aziende con 250 dipendenti l’Italia totalizza un valore aggiunto di 100. Quindi le imprese italiane sono più produttive in media delle altre aziende europee.
Anche nelle imprese tra 50-249 dipendenti l’Italia fa meglio degli altri paesi europei totalizzando un valore aggiunto di 85. Ottima notizia, quindi le imprese italiane stanno messe meglio delle altre.
Ma nelle piccole imprese fino a 9 dipendenti il rapporto si inverte completamente, le aziende italiane sono notevolmente meno produttive. E sai qual è il vero problema? Queste micro imprese rappresentano più o meno il 70% della totalità delle imprese italiane.
Per cui queste piccole imprese parassitarie assorbono una quantità incredibile di risorse conducendo il paese dritto dritto verso la patrimoniale.
La maggioranza dei clienti di Tax Planning Internazionale costituisce proprio una piccola impresa. Quindi i nostri clienti sono cattivi parassiti che stanno facendo del male all’Italia? Ci stanno portando verso la patrimoniale?
Assolutamente no!!!
Il problema non sono i piccoli imprenditori, che di fatto sono degli eroi. Il problema è il contesto istituzionale italiano (imposte alte, pessime infrastrutture, istruzione scadente, mancanza di certezza del diritto, mercato del lavoro poco fluido, difficoltà nel reperire capitali, pochi investimenti stranieri…) che impedisce a questi piccoli imprenditori di diventare grandi imprenditori.
Le micro imprese devono diventare grandi imprese se si vuole che il paese ritorni a crescere. Alcune diventeranno grandi inglobando le più piccole e improduttive. Ciò permetterà di assorbire le energie scarsamente produttive in imprese più grandi e produttive. In questo modo si evita di sprecare risorse in attività a bassa produttività.
Questo non vuol dire che tutte le piccole imprese siano improduttive, ma ce ne sono troppe e la maggioranza sono improduttive. Quindi sarebbe bene se un 10% venisse inglobato in imprese più grandi. In un sistema efficiente dovrebbero chiudere. I proprietari di queste micro imprese dovrebbero essere assunti, incorporati in aziende più grandi. Se sparisse il 10%, quelle risorse verrebbero usate in maniera più efficiente e produttiva.
Ma quali sono tutte queste piccole imprese che danno “fastidio” ?
Cosa c’è nel “sistema” Italia che permette a tutte queste imprese improduttive di sopravvivere? Questa è la domanda da farsi che tiene inchiodato il paese alla stagnazione economica.
Per esempio, quelle che farebbero meglio a sparire sono numerosissime micro imprese attive nel settore turistico che si dimostrano però assolutamente inefficienti. Non è vero che se queste micro imprese chiudessero sparirebbero i posti di lavoro, piuttosto quel pezzo di mercato verrebbe riassorbito da imprese più efficienti, più grandi, che crescerebbero assorbendo proprio quella forza lavoro in questo momento inefficiente.
I gestori di piccole imprese inefficienti potrebbero diventare manager di imprese più grandi e produttive e finalmente uscire dalla soglia della povertà in cui si trovano nel fare i micro imprenditori.
Ad esempio, chi oggi gestisce un lido balneare nel meridione ha probabilmente le capacità intellettive e manuali per fare un lavoro molto più edificante, più produttivo e di guadagnare molto di più in un’impresa più grande e più efficiente.
Ma le piccole imprese improduttive sono in ogni settore: il fruttivendolo che sta in bottega è altamente improduttivo, il piccolo avvocato, il piccolo commercialista, e via dicendo. Sono servizi che non hanno quel livello e quella organizzazione del lavoro necessaria per essere efficienti. Queste persone sopravvivono di piccole evasioni fiscali, favori, amicizie, sgravi fiscali concessi alle piccole partite IVA. Nel settore dei servizi per esempio esistono pochi grandi studi associati organizzati in maniera efficiente.
Senza contare che il grosso dell’evasione fiscale è proprio nelle micro imprese. E questo avviene in tutti i paesi del mondo; il problema dell’alta evasione fiscale italiana è dovuta in larga parte al fatto che il 70% delle imprese italiane rientra nella categoria di micro-impresa.
Purtroppo però nella retorica mainstream passa il messaggio che “piccolo è bello” e cioè che è necessario aiutare a rimanere a galla le piccole imprese invece di varare una normativa che favorisca la loro concentrazione in un aziende più grandi. In questo modo la produttività resta al palo, il debito pubblico cresce, la demografia scende e allora cosa si fa per compensare i minori introiti e i debiti? Semplice, si introduce l’imposta patrimoniale!
Favorire quelle imprese produttive che trainano il paese
Ma le imprese italiane ad alta produttività esistono e sono quelle gemme che esportano merci e servizi sui mercati esteri realizzando un surplus commerciale che ci invidiano in tutta Europa (il secondo dopo la Germania). Se vogliamo evitare la patrimoniale dobbiamo affidare il nostro futuro nelle loro mani.
Quindi l’Italia ha delle cose buone da cui partire, ma queste aziende sono troppo poche.
Eppure ci sono e si vedono!, Quello che dovrebbe fare lo Stato è fare in modo che queste poche imprese produttive siano ancora più forti sui mercati internazionali e che le piccole aziende italiane diventino produttive e competitive come le loro sorelle più grandi. Che si favorisca la concentrazione di impresa e muoiano tutte le micro aziende improduttive che non fanno altro che allocare in maniera scandalosa le risorse produttive della società.
Ma non sembra essere una priorità dei nostri governi, i quali invece si concentrano nel trasferimento di risorse dai settori produttivi della società (vedi gli 80 euro di Renzi o il reddito di cittadinanza dei 5 Stelle, lo sgravio sulle partite IVA di Salvini) ai settori improduttivi. E intanto la patrimoniale si fa sempre più concreta!
La maggioranza delle misure varate dai governi dagli anni ‘70 ad oggi sono finalizzate a favorire la bassa produttività e l’allocazione irrazionale delle risorse produttive. La competitività e l’aumento della produttività avviene solo in caso di concentrazione di imprese e la morte di piccole realtà improduttive. Se questi fossero dipendenti di grandi aziende competitive guadagnerebbero molto di più e sarebbero più soddisfatti.
Ma i nostri politici vogliono tenere in vita le piccole realtà improduttive perché portano loro consenso elettorale nel breve e medio termine.
L’Italia, pur con tutti i guai che ha, resta comunque tra i primi 10 paesi che esportano all’estero e tra i primi 5 che hanno un surplus commerciale superiore ai 100 miliardi di dollari. Eppure i nostri politici invece di rafforzare ed espandere questo nucleo efficiente e produttivo, tolgono risorse alle imprese produttive per darli a quelle improduttive.
Infatti quando dai i soldi a un disoccupato o quando fai degli sgravi fiscali a delle partite IVA improduttive stai usando il surplus prodotto da qualcuno per darlo a qualcun altro che probabilmente non è in grado di produrre abbastanza né per se stesso né per altri.
Semplificherò molto, ma questa operazione, in contabilità nazionale, viene chiamata “trasferimento”.
Letteralmente dunque si “trasferiscono” risorse dalle tasche di un soggetto produttivo verso le tasche di un soggetto improduttivo o poco produttivo. Chi sono i soggetti produttivi che pagano le tasse? Le imprese che realizzano i 100 miliardi di surplus commerciale ogni anno. Chi sono i soggetti improduttivi che ricevono i vantaggi? Piccoli commercianti, piccole partite IVA, disoccupati, pensionati, forestali siciliani, 1200 deputati (negli USA ce ne sono solo 500) e via dicendo. Attenzione, non sto dicendo che un pensionato o un disoccupato non debbanno ricevere una pensione dallo Stato, lungi da me dirlo. Però è indubbio che debbano essere classificato tra i soggetti improduttivi, su questo siamo tutti d’accordo. Dargli soldi non fa ripartire l’economia, che sia chiaro.
Negli ultimi 40 anni la politica italiana ha continuamente trasferito risorse verso i soggetti improduttivi: sgravi fiscali alle piccole partite IVA, sussidi di disoccupazione, baby pensioni, assunzioni pubbliche indiscriminate. Alcune di queste sono giustificabili: alcuni sussidi di disoccupazione sono giusti, le pensioni devono essere pagate (ma deve essere alzata l’età pensionabile), i trasferimenti ad alluvionati e terremotati sono sacrosanti, ma questi sono solo la punta dell’iceberg degli ultimi 40 anni di politica assistenzialista.
Cosa avrebbe dovuto fare la politica in questi ultimi 40 anni? Avrebbe invece dovuto lasciare i soldi nelle tasche delle imprese produttive, magari favorendo gli investimenti e l’innovazione tecnologica.
Terrorsimo fiscale
Il problema è che non solo lo Stato opprime queste aziende produttive con tasse eccessive per trasferirli a settori improduttivi, ma come se non bastasse opera del terrorismo fiscale indiscriminato.
Ogni anno viene rilasciato dal Dipartimento delle Finanze il monitoraggio sul contenzioso tributario. Sono dati pubblici e accessibili con un paio di click.
Basta dare una veloce scorsa a tale relazione per rendersi conto che l’ammontare delle cifre contestate ogni anno cambia (può variare dai 30 ai 50 miliardi a seconda dell’anno fiscale), ma una cosa però non cambia mai: la percentuale di esiti positivi a favore dell’Agenzia delle Entrate.
Nei tre gradi di giudizio, gli esiti favorevoli allo Stato sono solo del 45%. Questo vuol dire che l’agenzia ha ragione solo una volta su due. E come se non bastasse, quando il contribuente riceve una sentenza favorevole definitiva, al termine del procedimento, è costretto a compartire con lo Stato i costi del processo.
Dopo 8 anni di processo (in media) deve dividere le spese con chi lo ha accusato ingiustamente. Lo Stato perde soldi e anche gli imprenditori li perdono. Si intasano i tribunali (la pessima giustizia civile incide negativamente sulla produttività delle imprese) e si effettuano ulteriori trasferimenti pubblici (inutilmente) a studi legali e avvocati che non sarebbero così numerosi se lo Stato fosse più corretto. Lo stesso Tax Planning Internazionale (lo studio Taglialatela) non avrebbe senso di esistere se lo Stato italiano fosse meno incivile.
Ho massimo rispetto per gli avvocati, ma sinceramente avrei preferito che queste risorse fossero state impiegate per penetrare il mercato asiatico, costruire una ferrovia o mettere in sicurezza un territorio a rischio idrogeologico.
Per cui l’agenzia porta tutti in processo, tanto se perde non paga i costi del procedimento. Il funzionario che porta l’imprenditore in contenzioso viene premiato per l’accertato stimato, non per le vittorie in contenzioso. Quindi non ha alcun incentivo a individuare veri evasori o a fare indagini approfondite.
Lui porta tutti in contenzioso e pesca nel gruppo. Prima o poi qualcuno uscirà che non ha pagato le tasse, poco importa per quegli altri che invece di produrre dovranno perdere i mesi dietro a un processo ingiusto e cedere fette di mercato ai concorrenti tedeschi, spagnoli e francesi.
E’ evidente che queste contestazioni non vengano fatte nei confronti dei soggetti improduttivi, ma dei soggetti produttivi che già pagano una quantità spropositata di imposte per vedere trasferiti i propri profitti a settori improduttivi.
Non sarebbe meglio lasciare nelle tasche dei soggetti produttivi queste risorse e permettere così che li facciano fruttare?
I nostri problemi ce li siamo creati da soli. Notizia bomba: i tedeschi non sono “CATTIFI”, siamo noi che siamo degli imbecilli!!
Appurato che il nostro problema è principalmente la bassa produttività (causata da un insieme di fattori) perché i nostri politici se la prendono con gli immigrati e con l’Europa, ma mai non con gli italiani stessi?
Quando siamo entrati in Europa abbiamo avuto un’occasione straordinaria che abbiamo sprecato. In quell’occasione, i tassi sul debito sono letteralmente crollati, grazie alla Germania che “garantiva per noi”. La verità è che, negli anni che seguirono il 2002, l’Italia si è presentata sui mercati internazionali mostrando il biglietto da visita dei tedeschi.
Abbiamo avuto così accesso ai capitali dietro tassi bassissimi. Avremmo allora potuto usare quei soldi per fare investimenti produttivi, rinnovare la pubblica amministrazione, ridurre il debito e migliorare le infrastrutture. Ma cosa abbiamo fatto invece? Abbiamo aumentato la spesa corrente e i trasferimenti da settori produttivi a settori improduttivi … proprio così, di nuovo !!! .
La rivoluzione liberale di Berlusconi ovvero l’espansione dello Stato illiberale
Nei primi 8 anni dell’euro siamo passati dal 12.8% di interesse sul debito pubblico (interesse che pagavamo prima di adottare l’euro come moneta) a meno del 5%. Ciò ha portato enormi vantaggi al nostro paese. Complessivamente abbiamo risparmiato 700 miliardi di euro grazie all’entrata nell’euro. Si aggiungano anche i 200 miliardi che in quel periodo lo Stato ottenne grazie alle privatizzazioni. Fanno 900 miliardi complessivi.
Ma la politica (Berlusconi in primis) ha pensato bene di utilizzare questo tesoretto non per fare riforme strutturali, ma bensì per alimentare la spesa corrente e la compravendita di voti (fatta appunto con la spesa corrente).
Nel frattempo, il debito pubblico è salito a dismisura e, solo 8 anni dopo l’ingresso nell’euro, lo spread era già alle stelle. Per fortuna silurarono Berlusconi che aveva portato il paese in rovina e subentrò Monti, il quale grazie alla Fornero fece una riforma importantissima.
Poi Renzi prese in giro tutti facendo credere che avrebbe fatto importanti riforme strutturali e invece ricominciò con spesa corrente, intrallazzi e balle generalizzate. Infine, arriviamo poi al governo gialloverde il quale ha portato la logica della compravendita dei voti alle estreme conseguenze, come mai nessuno aveva avuto il coraggio di fare.
Nessun governo ha fatto nulla per l’Italia! Questo ficcatelo bene nella zucca!
Le uniche note positive di questo excursus sono stati la riforma Fornero del breve governo Monti, qualcosina del primo governo Prodi e le pseudo-riforme liberalizzatrici di Bersani.
Tutto il resto è da mettere in una pattumiera e darle fuoco.
La cosa curiosa è che la sinistra ha fatto molto di più per la liberalizzazione dell’economia di quanto abbia fatto la destra liberale. Ma queste sono le ironie della storia….
Come andavano le cose prima di entrare nell’Euro?
Prima di entrare nell’Euro l’Italia aveva un’arma in mano, era la cd. svalutazione competitiva, amata da tutti gli “anti-euro”. Ma in cosa consiste realmente la svalutazione competitiva? In pratica, la Banca Centrale, all’epoca controllata dal Governo, per far fronte ai debiti si preoccupava di acquistare il debito emettendo ulteriore moneta.
In pratica, quando il debito pubblico diventava eccessivo, il Governo chiedeva alla Banca Centrale di emettere moneta per ripagare il debito stesso. Questo, in economia, si chiama “monetizzazione del debito” ed ha un effetto molto negativo sull’economia.
L’effetto è il seguente: monetizzando il debito coloro che hanno dei crediti con lo Stato (hanno acquistato titoli del debito pubblico) si ritrovano svalutato il proprio credito. Facciamo un esempio: se il Dr. Rossi ha acquistato 1000 lire di debito pubblico e lo Stato, che non ce la fa a ripagare il debito pubblico, decide di “monetizzare il debito” svalutando appunto il valore della lira. Il Dr. Rossi si ritrova allora con un titolo del debito di 1000 lire. Nulla è cambiato apparentemente, salvo che se prima con 1000 lire ci potevi comprare 2 mele, adesso che il valore della lira si è svalutato, si può comprare una sola mela.
Quindi è come se il creditore Dr. Rossi si sia ritrovato con 500 lire in meno. Un pessimo investimento a quanto pare. Ecco perché i tassi di interesse applicati all’Italia, prima dell’euro erano del 12,8%, proprio perché nessuno si fidava dell’Italia che svalutava continuamente. I creditori non volevano ritrovarsi con il 50% del proprio investimento in meno. Il 12,8% di tassi di interesse è moltissimo, vuol dire che la fiducia nei nostri confronti era bassissima. Solo i pazzi speculatori ci prestavano soldi, le istituzioni serie non si azzardavano affatto.
Inoltre, in caso di svalutazione, i salariati si ritrovavano con un valore del proprio stipendio ridotto e potevano comprare meno cose. Tutto ciò, bene o male, ha funzionato fino agli anni ‘90, ma da quando sono entrati un miliardo e 400 milioni di cinesi poveri nel WTO questo giochetto è diventato impossibile. Infatti finché c’eravamo solo noi a fare questo gioco della svalutazione bene o male funzionava. Ma con l’accesso di paesi poveri, come la Cina, nel mercato internazionale per poter far funzionare questo gioco gli italiani avrebbero dovuto svalutare talmente tanto da portare la capacità di acquisto dei salari allo stesso livello dei cinesi, dei vietnamiti e dei nuovi paesi emergenti (Bangladesh, Nigeria ecc.)
Si tenga conto che oggi, il PIL pro-capite di un cinese è di 17.000$, mentre per l’Italia è di 38.000$. Quindi, se volessimo competere con la Cina dovremmo svalutare il valore della “nuova lira” almeno del 50%. Ciò vuol dire che possiamo comprare il 50% in meno delle cose che possiamo permetterci oggi. Che grande conquista!
Sarebbe una follia entrare in competizione con la Cina sui bassi salari.
E sebbene in Cina oggi stiano salendo i salari, esistono però decine di paesi che col tempo la sostituiranno: il Bangladesh ah quasi 200 milioni di abitanti, il Vietnam ne ha 70 milioni, poi c’è la Nigeria con altri 180 milioni, l’Etiopia con 50 milioni, per non parlare dell’Indonesia, le Filippine, la Cambogia e via dicendo.
Davvero vogliamo competere sui bassi salari con nigeriani e vietnamiti? E’ questa la strategia dei sovranisti? Impoverire ulteriormente l’Italia?
Eppure quello fin qui delineato è lo scenario migliore. Se le cose vanno bene, gli italiani dimezzeranno la propria capacità di acquisto e saranno molto più poveri. Se invece le cose vanno male si finirà come il Venezuela che oggi combatte con una inflazione rampante. Il problema che avviene quando monetizzi il debito è che le cose possono sfuggirti di mano e allora non si torna più indietro.
Infatti, verso la fine degli anni ‘70 nessuno aveva più intenzione di prestarci soldi (nemmeno gli italiani) proprio a causa di questo giochetto stupido (inflazionare a sfavore del creditore). Se non si fosse intervenuti separando la Banca centrale italiana dal Governo e poi entrando nel sistema europeo dello SME sarebbe accaduta una cosa molto brutta. Sarebbe accaduto che il Governo non sarebbe stato in grado di racimolare i soldi necessari per pagare stipendi e pensioni e l’unica soluzione sarebbe stata quella di introdurre una pesante patrimoniale ai danni di tutti gli italiani.
Ma il Giappone ha un debito rispetto al PIL del 220% e se la passa benissimo!!!!
“Il Giappone ha un debito pubblico maggiore dell’Italia (220% nominale rispetto al PIL, mentre l’Italia ha il 130%), ma nessuno se ne preoccupa perché ha una Banca Centrale controllata dalla politica che può emettere yen e può lavorare in deficit senza problema, mentre invece l’Italia non ha la sovranità perché la Banca centrale europea è controllata da numerosi governi e soprattutto è indipendente dai governi. Per questo motivo il Giappone vive splendidamente e noi no.”
Questo è l’argomento usato da molti babbei. E’ vera questa tesi?
No, è assolutamente falsa!
Infatti quali sono i fattori che determinano la rischiosità di un debito nazionale? Gli investitori stabiliscono diversi tassi di interesse per garantirsi dal rischio che tale debito non possa essere ripagato e i fattori sono il livello di debito rispetto al PIL, il livello di tassazione, il tasso di crescita del PIL e la reputazione del governo.
I 4 fattori principali che le persone ragionevoli (gli investitori) guardano prima di dare fiducia a un paese e investirvi.
1) Il livello del debito in rapporto al PIL
Questo è il fattore che viene guardato per primo ed è il motivo che spinge alcuni babbei a dire che il Giappone è messo peggio dell’Italia.
2) Il livello di tassazione
Non è che si usa solo il PIL per garantire il debito, lo Stato usa anche il gettito fiscale per garantire il debito.
Possono quindi starci due paesi con un PIL uguale e un debito uguale ma con due tassazioni diverse. Il paese con la tassazione più alta ha anche una spesa più alta e quindi è meno capace di garantire il suo debito. Il paese con le tasse più basse se vuole chiudere il gap basta che aumenti le tasse. Ha un margine che il secondo potrebbe non avere. Questo è esattamente il caso del Giappone e dell’Italia. L’Italia ha una pressione fiscale del 43%, il Giappone del 28%. Il Giappone ha un margine di 15 punti in più rispetto a noi, basta che alzino le imposte di 3 punti e in 20 anni riportano il debito a livelli accettabili.
3) Il tasso di crescita del PIL
Se uno cresce e l’altro no, il primo è maggiormente capace di garantire il debito rispetto al secondo.
4) La reputazione del governo
Se uno ha un governo che ha un piano di riduzione del debito, mentre l’altro ha un governo che minaccia di non pagarlo. Anche questo ha un’influenza sui tassi di interesse e sulla disponibilità degli investitori di rinnovare il prestito.
Inoltre c’è da dire che sebbene in termini nominali il Giappone abbia un indebitamento del 220% sul PIL, in termini reali è del 150% mentre in l’Italia è del 120%. Quindi la differenza non è così ampia come si crede. Inoltre, non è affatto vero che il Giappone non si ponga il problema del suo debito pubblico. Infatti, si stanno cominciando a prendere provvedimenti come aumentare l’immigrazione e fare fronte alla pesante spesa pensionistica.
Ma il vero fattore che rende il Giappone molto più affidabile dell’Italia nel garantire il debito pubblico l’ho scritto qualche riga sopra. Si tratta proprio del livello di tassazione! Un paese come il Giappone, sebbene abbia un debito enorme, alzando la tassazione di 2-3% in 20 anni rimette a posto il suo deficit senza problemi. L’Italia non ha questo margine poiché ha una tassazione già elevatissima, tra le più alte dell’intero OCSE.
Da come si vede nel grafico sotto, le imposte sul PIL dell’Italia sono intorno al 43%. Sono pochi i paesi sopra di noi (Svezia, Finlandia, Belgio, Francia e Danimarca) e nessuno di questi ha i nostri problemi. La Francia, che è la più vicina a noi in termini di sistema pensionistico e di rigidità del mercato del lavoro, ha però una curva demografica molto positiva poiché destina molte delle sue risorse alle giovani coppie, mentre noi destiniamo quasi tutta la nostra spesa sociale ai vecchi (mi dispiace metterla in questi termini, ma di questo si tratta).
Da come si vede nel grafico sotto il Giappone ha elevato di molto le tasse negli ultimi anni, proprio per tenere il debito sotto controllo. In questo modo si è mostrato molto responsabile nei confronti di coloro che detengono debito giapponese. Nonostante questa crescita repentina degli ultimi anni, il peso delle tasse sul PIl è solo del 28%. Per cui i giapponesi hanno un margine del 15% per aumentare le tasse che noi non abbiamo affatto. Ecco perché il debito giapponese è molto più sicuro di quello italiano.
Infatti il Giappone, che ha un deficit del 1-2% sul PIL ogni anno, può tranquillamente eliminare il suo deficit di bilancio alzando le tasse di 2 punti, restando comunque di 13 punti sotto di noi. Una cosa del genere noi non possiamo nemmeno immaginare di farla vista la pressione fiscale che contraddistingue il nostro paese. Alzare ulteriormente le tasse vorrebbe dire finire di distruggere il nostro tessuto produttivo.
Per concludere, si consideri che l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo che include nel PIL anche l’economia sommersa, per cui in realtà il peso delle tasse sul PIL è ben più alto del 43%.
Insomma siamo in una situazione terribile e ciò che è peggio è che vi ci siamo messi da soli, ma a quanto pare … ancora non ci basta.
Nessun futuro e decrescita demografica
L’Italia non è l’unico paese europeo che destina il 25% di punti di PIL alla spesa sociale. Quasi tutti hanno questa percentuale di PIL destinata alla spesa sociale, ma l’Italia si caratterizza per una sua peculiarità: il 70% di questi 25 punti sono destinati esclusivamente agli over 55. Nel resto d’Europa invece si aiutano anche i giovani.
Il risultato è che la demografia è in calo, il sostegno alle famiglie è assente, il sostegno ai giovani è inesistente, l’istruzione scolastica e universitaria sono penose, l’ascensore sociale è bloccata, la possibilità di andare a vivere da soli è una chimera.
Tutto ciò non c’entra nulla con lo sviluppo economico? Ebbene è uno dei punti centrali poiché uno dei fattori principali della crescita economica è proprio la crescita demografica. L’Italia è il paese peggiore in termini di sostituzione demografica. L’immigrazione compensa questo fattore, ma adesso vogliamo anche chiudere le frontiere.
E comunque c’è da dire che l’immigrazione, sebbene sia un calmiere del calo demografico, è molto costosa poiché è fonte di tensioni sociali e ci vuole tempo a integrare uno straniero senza competenze che non è nemmeno in grado di parlare l’italiano. La soluzione migliore è quella di aiutare anche i giovani, non solo i vecchi, ma non la pensano così i nostri concittadini che sono guarda caso in maggioranza anziani.
Tutto porta alla patrimoniale
Insomma lo scenario è chiaro. Se i problemi non si affrontano come è stato scritto in questo veloce documento, la situazione italiana può solo peggiorare e prima o poi una patrimoniale stai sicuro che la fanno.
Come fare a prevederla?
E’ molto semplice: messi come siamo oggi, alla prima scossa internazionale o crisi economica i nostri conti vanno letteralmente all’aria e l’ipotesi della patrimoniale diventerà immediatamente concreta.
Finché non vedrai il governo prendere le misure giuste per aumentare la produttività, invertire la curva demografica, elevare l’età pensionabile, frenare i trasferimenti di spesa corrente, fare investimenti produttivi e smetterla di prendersela con l’Europa puoi stare tranquillo che un patrimoniale sarà sempre dietro l’angolo.
O si risolvono i problemi sul serio oppure, alla fine, verranno da te con il conto da pagare
Questa è la sola ed unica verità che spiega perché la patrimoniale è inevitabile in Italia.
Valerio Quatrano – nemico giurato della patrimoniale e fuggito dall’Italia proprio per evitarla