Un Disastro Per La Concorrenza e Per le Tasche degli Stati
Ovunque nel mondo le imprese stanno applicando nuovi modelli di business legati alla cosiddetta economia digitale. Vendite online, servizi di streaming televisivo, assistenza da remoto, consegne di cibo, servizi di ospitalità e trasporto gestiti da piattaforme digitali, app e siti di gaming sono solo alcuni esempi dei tantissimi tipi di business digitalizzati oggi esistenti.
Le piattaforme digitali sono diventate una risorsa importante per acquirenti alla ricerca di un modo facile e veloce di accedere a forniture di vario genere, molte delle quali assoggettate a tassazione IVA nel paese in cui avviene il consumo dei beni o servizi acquistati.
Le moderne tecnologie informatiche permettono alle piattaforme digitali di fornire e/o facilitare le forniture anche quando queste non sono presenti, o hanno una presenza ridotta, nel paese di consumo. Contestualmente, la crescita di questi modelli di business fa emergere la competizione con i venditori e i fornitori di servizi “tradizionali” che operano su base nazionale.
Per garantire una competizione giusta tra modelli di business più o meno digitalizzati i governi devono garantire che le norme fiscali e gli obblighi per le imprese siano gli stessi, a prescindere da dove il fornitore abbia la propria sede. Preservare condizioni di parità non riguarda solo le tasse da pagare, ma anche il rispetto delle norme amministrative in ambiti quali la sicurezza pubblica, le misure relative alla salute e alla sicurezza alimentare, il trasporto sicuro dei passeggeri, le normative del mercato finanziario, etc.
E qui comincia il problema …
Le Imprese non residenti non versano l’IVA
Nel mondo il dibattito sulla tassazione dei modelli di business digitali è molto acceso, in particolare in merito a dove le imprese ad alto contenuto digitale debbano versare l’imposta sulle società.
Nel caso delle imposte sui consumi (VAT), il diritto di tassazione per le transazioni B2C si alloca in genere alla giurisdizione dove avviene il consumo vero e proprio di beni/servizi. Nell’economia digitale, dove molti fornitori non hanno la propria sede nel paese di consumo del bene/servizio (dove si trova in sostanza l’acquirente), il rapporto tradizionale che intercorre tra Fisco e contribuenti residenti residenti non funziona (o non è applicato alla stessa maniera) nei confronti delle imprese non residenti .
Si dà digrossa attenzione alle multinazionali del Tech, ma se andiamo a vedere la realtà dei fatti, tutti quelli che non sono Apple, Amazon, Google o Facebook, sono di fatto lasciati liberi di non applicare l’IVA ogni volta che vogliono. Questa è la realtà dei fatti, che piaccia oppure no.
Questo perché, ad esempio, l’impresa non residente potrebbe non essere a conoscenza dell’obbligo di versare l’IVA o fornire informazioni al Fisco locale. Per le imprese digitali con sede in uno o più paesi ma operanti in molteplici giurisdizioni, il contribuente potrebbe non avere familiarità con le disposizioni fiscali di ognuna delle giurisdizioni in cui svolge le proprie attività.
Anche quando il contribuente non residente sappia di dover sottostare ad obblighi in materia di IVA in una determinata giurisdizione, potrebbe ugualmente avere difficoltà a comprendere il funzionamento delle norme su IVA redatto in un’altra lingua e riguardante, per esempio, il termine della presentazione della dichiarazione dei redditi, le aliquote IVA, le esenzioni, etc. Inoltre, gli strumenti disponibili per ottemperare agli obblighi di versamento (formati elettronici, fatturazione, obbligo di tenere registri, adempimenti mensili, invii telematici, etc.) possono variare di paese in paese, rendendo l’adesione volontaria alle norme un’impresa complessa.
Credetemi, io che lavoro con un centinaia di giurisdizioni per lo meno, posso assicurarci che si tratta di un vero e priori delirio. Basti pensare che solo in Europa le aliquote IVA Vaticano da Paese in Paese, per non parlare della Sales Tax negli USA la cui applicazione è soggetta all’interpretazione delle corti statali e federali … si rischia seriamente di andare al manicomio o di dover sostenere costi amministrativi altissimi per essere compianto con tutti quanti gli stati (e questo poi è un altro problema, quello dei costi da sostenere …per poter pagare le tasse per così dire … una follia.. ):
L’autorità fiscale, dal suo canto, può incontrare difficoltà ad entrare in contatto con il contribuente non residente Anche cose semplici come inviare un’informazione o un’email all’indirizzo giusto può rivelarsi complicato.
Richieste di informazioni possono essere inoltrate all’indirizzo o alla persona sbagliata nel caso in cui il Fisco non sappia chi è il rappresentante legale di un’impresa, o dove questa abbia la propria sede legale.
Gli strumenti di cooperazione amministrativa fanno acqua da tutte le parti!
Nel quadro “tradizionale” di tassazione internazionale del XXI secolo, e in assenza di un rappresentante IVA nella giurisdizione di consumo, i rapporti tra autorità fiscali e contribuenti non residenti dovrebbero essere regolati tramite strumenti di cooperazione amministrativa internazionale tra autorità fiscali.
In questo quadro, per inoltrare ad esempio una richiesta di informazione, condurre le procedure di controllo fiscale, o recuperare eventuali imposte non pagate, il Fisco del paese di consumo può/deve inoltrare una richiesta di cooperazione a quello del paese in cui si trova il contribuente.
La richiesta di cooperazione internazionale prevede l’esistenza di un accordo tra le autorità fiscali di entrambe le giurisdizioni. In caso di cooperazione amministrativa a fini IVA, gli strumenti internazionali disponili oggi:
- la Convenzione sulla reciproca assistenza in materia fiscale (Convention on Mutual Administrative Assistance in Tax Matters), siglata da 137 giurisdizioni in tutto il mondo, e
- i TIEA (Tax information exchange agreements).
Ma non bastano.
Questi strumenti non bastano, o per lo meno non sono sufficienti di per sé a garantire né il rispetto delle normative IVA né tantomeno il rispetto della concorrenza tra i vari attori economici sui mercati internazionali.
Certo, possiamo dare la colpa alla rapida evoluzione dei modelli di business dell’economia digitale che progrediva e progredisce mentre le amministrazioni pubbliche di molte paesi non hanno neanche le risorse per comprare i computer ai propri dipendenti, mancano di processi digitali efficienti o di banche dati affidabili … ma è davvero colpa delle imprese “avide” di denaro (ma più che altro avide di “futuro” io direi) o forse qualcosa è andato storio nell’amministrazione della “res pubblica” ?
Certo è che tutta la colpa non può gravare sul progresso a mio modesto parere.
Ad ogni modo, quello che è altrettanto certo è che i metodi tradizionali di contatto e relazione tra il Fisco e i contribuenti non residenti per quanto riguarda l’IVA oggi non funzionano come dovrebbero.
I tempi per avviare un processo di cooperazione tra Stati dipendono dalla capacità del Fisco di gestire la domanda. Molti casi richiedono più tempo di quanto sia ragionevole (o di quanto preveda la legge) per fronteggiare efficacemente l’eventuale violazione di normative fiscali in tema IVA (come ad esempio mancati versamenti). Inoltre, la richiesta di cooperazione amministrativa che fa riferimento agli accordi internazionali ha come oggetto principale le imposte dirette, come quella sul reddito personale e la tassazione delle imprese. Questo perché il modello OCSE bilaterale di convenzione copre le imposte dirette sul reddito e il capitale, ma non quelle sui consumi. Pertanto, la capacità di scambiare informazioni su altre tipologie di tasse, come l’IVA è molto meno efficace.
Ancora, devi sapere che per poter dare l’ok alla cooperazione amministrativa in genere è richiesta la verosimile pertinenza dell’informazione richiesta. Il Fisco può respingere una richiesta cosiddetta di “massa” di dati senza ragionevole spiegazione. Nel caso di modelli di business gestiti da imprese non residenti sotto forma di migliaia di forniture (download di software e app, accesso a contenuti digitali in streaming, spese di intermediazione, etc.) e in mancanza di indicazioni chiare e immediate da parte del fisco dell’eventuale norma violata, la richiesta può essere classificata come “fishing” e dunque respinta, terminano in un nulla di fatto.
Il contribuente non residente a cui viene fatta richiesta può inoltre appellarsi a varie normative, come le disposizioni in materia di protezione dei dati, per evitare di cooperare con il Fisco.
Questa dicotomia tra modelli di business globali e leggi nazionali IVA è un vero caos sia per i contribuenti che vogliono rispettare le relative normative in tutte le giurisdizioni dove svolgono attività, che per il Fisco che cerca di preservare non solo le entrate fiscali, ma anche parità di condizioni per tutti gli attori economici, a prescindere da dove abbiano la propria sede.
Le sfide dell’economia digitale del XXI secolo sono ben lontane dall’essere risolte o in via di risoluzione … ogni giorno l’ammontare di IVA evasa – da parte delle imprese non residenti – all’interno dei Paesi dell’Unione Europea (ma in generale in qualsiasi paese del mondo che preveda una normativa IVA) è impressionante … parliamo di miliardi … cifre da capogiro … tutto in barba del fisco ma soprattutto delle imprese locali che devono farsi un “mazzo” doppio per sopperire alle mancanze di potere degli Stati in cui (ironia della sorte) loro sì che devono pagare fino all’ultimo centesimo di tasse…
Una guerra impari che non potrà che finire in un modo soltanto … se la cooperazione tra fisco e contribuenti non raggiunge entro breve un livello di cooperazione e trasparenza propri di un economia quasi completamente digitalizzata.
Wish you all the best
Luca Taglialatela